Quando ero più giovane la parola vuoto mi inquietava molto, era come dire baratro, depressione, autodistruzione, morte.
Fino a quando non ho iniziato a praticare yoga e meditazione, la via che mi ha mostrato che potevo fermarmi, stare nel buio, rimanere in silenzio, senza che nulla mi succedesse.
Ritrovandomi sdraiata li a terra alla fine della pratica nella posizione del cadavere, le lacrime iniziavano a scendere e potevo assaporare il vuoto che restava, dopo essermi liberata da nemmeno io sapevo cosa.
Così ho preso coraggio e ho iniziato a crearmi situazioni per toccare il più possibile quella assenza di parole, ruoli, forme e interferenze, che diventava rassicurante e rincuorante, nonostante la mente cercasse in tutti i modi di riempirlo.
Negli anni, grazie alle tante pratiche di respirazione sperimentate e apprese, il vuoto mi ha aiutato a creare altro vuoto, facendo emergere ciò che era davvero autentico.
Prima è venuta fuori tanta rabbia repressa, poi piano piano ho potuto iniziare a rinascere e a riempire quel vuoto con ciò che veramente il mio cuore desiderava.
Nel vuoto ho incontrato un maestro terribile e amorevole, che mi ha mostrato la possibilità di essere tutto e niente, in altre parole la libertà di essere.
Ora la mia pratica per nutrire il vuoto è scoprire quanto posso scegliere di fermarmi, di rinunciare senza temere di perdere, di stare in silenzio senza voler interpretare ciò che l’altro dice, di lasciare andare l’idea di dover fare qualcosa per meritare amore e attenzione.
È sperimentare quanto vuota posso rimanere pur stando nella forma, nel caos, nelle parole, nell’azione, nell’attrito. È stare nella certezza di non sapere nulla di ciò che accadrà e poter comunque gioire del semplice momento presente. A volte sembra di averlo totalmente incarnato, altre volte sembra di non poterlo nemmeno sfiorare, ma non importa, il vuoto mi sorride sempre.